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TORCELLO

Fuga nella Laguna Incantata

experience

LA STORIA

 

Una favola per la famiglia da leggere tutta d'un fiato, dove l'amore, l'amicizia, la tenacia e l'immancabile lieto fine vi terranno compagnia prima di vivere l'esperienza LIVE

IL TOUR

 

Vivi la favola in prima persona attraverso una forma di teatro itinerante.

Partenza da H-FARM Campus Marina con destinazione le isole della Laguna Nord.

Disponibilità: 40 persone

DURATA: 4 h.

Torcello - libro
TORCELLO, FUGA NELLA LAGUNA INCANTATA E' IL PRIMO LIBRO CHE INAUGURA UN MODO NUVO ED INNOVATIVO PER SCOPRIRE ED ESPLORARE

Torcello

Fuga nella Laguna Incantata

 

Prologo

 

Una sera di aprile del 1804 si sentì sbattere rumorosamente il portone di un palazzo veneziano, una giovane donna usciva con le lacrime agli occhi attraversando il campo avvolto nella tipica foschia veneziana.

In preda alla disperazione la ragazza correva inciampando nell’elegante vestito dal quale si intuiva non fosse una semplice ragazza, ma piuttosto una damigella di qualche nobile famiglia. Tra una calle e l'altra, la ragazza si muoveva timorosa, evitando d’imbattersi nelle guardie austriache di ronda da quelle parti, anche se il suo cuore batteva forte per l’amore che provava per uno di quei soldati ben vestiti.

Il suo amore ostacolato dalla famiglia lacerava l'animo della povera ragazza: il suo nome era Isabella Manolesso Ferro.

L'unica via d'uscita che poteva dare una tregua temporanea ad Isabella era rappresentato da un barchino a remi casualmente ormeggiato nel rio vicino.

La ragazza, senza esitazione, vi ci si catapultò sopra e con gli occhi colmi di lacrime cominciò a vogare con tutte le sue forze prima di scomparire nella nebbia della Laguna di Venezia.

 

 

Torcello, fuga nella laguna incantata

 

 

All’interno di palazzo Manolesso Ferro, affacciato sul Canal Grande, un gruppo di nobili decaduti scendeva nelle segrete del palazzo passando poi per i cunicoli stretti, a pelo sull'acqua, che portavano in un ambiente tetro e minaccioso. Lì, li stava aspettando un personaggio poco rassicurante chiamato con quelle formule magiche e quegli amuleti arrivati a Venezia dai traffici più o meno leciti con l’Oriente. Sefirot, così si faceva chiamare il losco personaggio, fu assoldato dagli aristocratici per risolvere un problema causato dalla disobbedienza di una delle figlie e il suo amore che rischiava di compromettere i piani della famiglia, che la voleva in sposa in un matrimonio di convenienza.

La richiesta a Sefirot quindi non lasciava spazio a dubbi: Arthur, il giovane ufficiale dell'esercito asburgico, doveva essere eliminato senza che la responsabilità dell'accaduto potesse mai essere ricondotta alla famiglia di Isabella. In cambio, il losco personaggio aveva richiesto un anello appartenuto al Doge più potente e famoso che la Repubblica Serenissima di Venezia avesse mai conosciuto: l'anello di Enrico Dandolo. L'aristocrazia preferì quindi separarsi da quell'oggetto vecchio e apparentemente ininfluente, a fronte invece della prospettiva di un rafforzamento dell’aristocrazia veneziana, grazie al matrimonio combinato a cui Isabella sarebbe stata costretta.

Così fù: Arthur, il giovane ufficiale, fu avvolto da un oscuro sortilegio, che lo trasportò istantaneamente in un’altra ignota dimensione.

Come tutte le sere, la foschia andava sempre più calando con il passare delle ore e con l’alzarsi dell'acqua alta, mentre il riflesso della luna si rifletteva sul tranquillo moto ondoso. Isabella, stremata dallo sforzo delle vogate, si lasciò cadere in un sonno profondo cullato dal dolce rumore delle onde che si infrangevano sulle briccole sparse lungo la laguna.

Proprio l'impatto con una briccola svegliò la giovane ragazza che di scatto si preoccupò di verificare che l'urto non avesse causato danni all'imbarcazione. Nel verificare che lo scafo non fosse danneggiato, Isabella fu attratta da qualcosa che si muoveva tra i pali di legno, che stranamente non erano semplicemente legati dalla classica fascia metallica, ma erano uniti anche da altre assi trasversali che ne avevano ricavato un rifugio, forse, per qualche uccello lagunare. Il riflesso della luna era sufficiente perché la ragazza si rendesse contro che all'interno di quella tana ci fosse qualcosa, quando, all'improvviso uno zampillo d'acqua colpì in pieno volto la ragazza. Asciugatasi gli occhi con un lembo del vestito, la ragazza si stropicciò ulteriormente gli occhi con le mani, incredula per quello che stava vedendo. Da quel fascio di briccole uscì fuori un animaletto dalle dimensioni di un gabbiano, ma molto più goffo e dalle sembianze ben meno eleganti, seppur munito anche lui di un paio di alette evidentemente sproporzionate se rapportate alle generose dimensioni della pancia, prova del fatto che fosse sicuramente una buona forchetta, piuttosto che un provetto aviatore.

Isabella, per nulla impaurita dall'insolita creatura, si avvicinò per capire meglio a quale strana natura appartenesse quell’essere pancioso. La curiosità della ragazza si trasformò subito in spavento quando l’esserino tronfio le domandò, nella tipica cadenza veneziana, cosa avesse mai da curiosare. 

La ragazza, sobbalzando indietro nel barchino e rischiando il capovolgimento, gli chiese incredula cosa mai lui fosse e come mai parlasse la sua lingua. L’animaletto gonfiandosi nel petto, le disse che era un draghetto di laguna, lontano discendente del Drago sconfitto da San Giorgio a cui era dedicata la vicina isola, il suo nome era Ferruccio! 

A dimostrazione della sua importante discendenza, il draghetto si gonfiò nuovamente fiero nel petto, pronto a scoccare la lingua di fuoco tanto famosa... ma l’unica cosa che uscì nuovamente dalla sua bocca fu un nuovo zampillo d’acqua.

Davanti alla simpatia di Ferruccio, Isabella non poté non trattenere una risata, che per un istante le fece dimenticare le sue disavventure. 

Il draghetto, ormai smascherato, raccontò di essere molto impacciato nel volo, al punto tale da finire sistematicamente a capofitto in acqua, cosa che a lungo andare spense la fiammella interna nel suo corpicino. Isabella e Ferruccio entrarono subito in sintonia al punto tale che la ragazza si confidò con lui, l’unico di cui ormai sentiva di potersi fidare. 

Il draghetto, così, si offrì di darle una mano, accompagnandola in un’isola incantata dove abitava una vecchia maga che avrebbe potuto risolvere i suoi problemi con l’uso della magia. 

Sempre più stremata, Isabella vogò seguendo il volo incerto del draghetto, che ogni due/tre colpi d’aletta finiva sistematicamente in acqua. 

Con le forze che ormai stavano per abbandonarla e avendo ormai perso di vista il draghetto, la giovane veneziana, avvistate le rive di un’isola, s’immise in un canale che la trascinò fino alla riva di un campo, dove a mala pena riuscì ad intravedere le luci di una locanda prima di perdere completamente i sensi. Era comunque salva, aveva raggiunto l’isola incantata: l’isola di Torcello.

 

 

Quando Isabella aprì gli occhi, colpita da un raggio di sole, le servì più di qualche istante per capire dove si trovava: l’ultimo ricordo che aveva dalla tanta stanchezza era quello delle scricchiolanti assi di legno che la notte precedente le avevano dato l’illusione di addormentarsi in un giaciglio confortevole. Il non sentir più il tipico odore dell’acqua di laguna, ma invece un profumo di lenzuola pulite asciugate al sole che sentiva morbide tra le dita, la risvegliò quasi come se avesse ricevuto una secchiata d’acqua gelida in faccia.

D’istinto si alzò e si diresse veloce verso il raggio di sole che l’aveva svegliata. Trattenendo il fiato come in apnea spalancò il balcone della camera, quando fu investita da un accecante bagliore, un luccicante incantesimo che l’avvolse e la rassicurò.

Dal primo piano della locanda da cui poteva godere di un panorama ineguagliabile, la bella veneziana si rese immediatamente conto che si trovava a Torcello, l’isola incantata di cui le aveva parlato Ferruccio, il draghetto pancioso.

Fu sorpresa che la magia di quel posto non fosse nascosta come era abituata a pensare, ma era splendente in ogni cosa su cui Isabella ponesse lo sguardo.

Era aprile, ma la bella stagione alle porte sembrava non aver accusato minimamente la rigidità dell’inverno appena trascorso, come se in quell’isola fosse sempre primavera. Ad un tratto lo sguardo incantato della veneziana fu attirato dall’agitarsi di una mano che affettuosamente la salutava. La traversa che indossava, chiaramente suggeriva che si trattava del locandiere che l’aveva salvata quella notte. Mossa da un’istintiva riconoscenza e da un brontolio allo stomaco per la fame, si girò velocemente in direzione della porta della camera, sicura di trovare le scale che la portavano al pian terreno.

Il locandiere Bonifacio aveva provato immediatamente un senso di protezione per quella ragazza che aveva trovato svenuta a bordo del barchino, sentendo che la cosa giusta da fare era quella di aiutarla a prescindere da quale fosse la sua storia che l’aveva portata a vagare per la laguna. D’altro canto, poi, se era arrivata nell’isola incantata non sarebbe stato di sicuro per caso.

Bonifacio preparò una succulente colazione per la bella veneziana, che evidentemente non mangiava da un bel po’ vista la voracità con cui la divorò. Tra un boccone e l’altro però, cresceva sempre di più la fiducia che la giovane riponeva verso l’uomo, al punto che gli raccontò tutte le traversie che la portarono in quell’isola. Ormai sazia della colazione e di essersi liberata di tutte le paure accumulate, la sua curiosità prese il sopravvento e domandò al locandiere la veridicità circa la natura magica di quell’isola che le aveva raccontato un simpatico draghetto: Bonifacio sentiva che poteva fidarsi di quella ragazza, così le raccontò tutti i segreti che nei secoli avevano reso quell’isola, l’Isola Incantata. Lo stesso, Isabella sentì che in quel luogo avrebbe potuto trovare la soluzione ai suoi problemi, avrebbe potuto ritrovare la felicità insieme ad Arthur, ma ancora non sapeva che il suo innamorato era stato vittima di un oscuro sortilegio.

 

Nell’estremità est dell’isola, alla fine di un sentiero tra un orto e l’altro, tra aiuole di coloratissime verdure, a picco sulla Laguna (anche se di fatto non era una scogliera, dove però si percepiva la stessa pericolosità considerata l’aura d’energia sprigionata), si ergeva una vecchia dimora dal camino alto e dalle finestre, tipicamente veneziane, incorniciate da sinistre bifore.

Anche se in stato di quasi abbandono, l’architettura di quella casa trasmetteva il potere che era vissuto e continuava a vivere all’interno delle spesse mura, solo in apparenza difesa dall’umidità e dall’acqua, quanto piuttosto resistente contenitore contro la fuoriuscita della magia che lì era costantemente creata.

In quel remoto angolo di terra nella Laguna di Venezia, viveva e operava la vecchia maga, dall’età indefinibile, che tutto sapeva e tutto conosceva. Si tramandava che secoli addietro fosse stata l’ultima a fuggire, a seguito di un’estenuante battaglia, dall’antica città romana di Altino dopo l’invasione dei barbari e la prima a rifugiarsi nell’isola di Torcello dove aveva portato il simbolo del potere sconfitto: il Trono di Attila.

Quel blocco unico di granito magico era l’emblema che la fuga non rappresentava la sconfitta, come è solitamente intesa, ma la generazione di nuova vita, il continuo ed ininterrotto susseguirsi di atti e fatti volti al continuo miglioramento, come poi sapientemente tradotto in musica da Johann Sebastian Bach nella sua famosissima “L’Arte della Fuga”.

Il vento e le correnti che solcavano Torcello avevano già portato la notizia dell’arrivo di una giovane ragazza fuggita da Venezia. La maga sapeva in cuor suo che avrebbe dovuto aiutarla in tutti i modi, Isabella doveva affrontare l’ultima battaglia per la conquista del suo amore, al suo fianco avrebbe avuto una vecchia maga e un pancioso draghetto.

 

Con il passare dei giorni la locanda era diventa una fortezza per la giovane Veneziana dove si sentiva al sicuro. Ciononostante ogni giorno si spingeva sempre più distante alla ricerca della maga di cui Ferruccio prima e Bonifacio poi le avevano parlato. Nel suo vagare, un giorno, la bella ragazza fu attratta da un orto coltivato a carciofi, non carciofi normali, ma di un colore incredibilmente purpureo quasi a conferma della sacralità di quegli ortaggi tanto belli da sembrare boccioli. Intrapreso il cammino tra gli orti di carciofi, d’un tratto la ragazza si fermò attratta da qualcosa che si stava agitando all’interno di uno di quegli orti: appollaiato ed intento ad ingurgitare voracemente un carciofo dietro l’altro, la ragazza scorse Ferruccio, il draghetto pancioso. Un po’ scocciato dall’essere stato interrotto durante il suo spuntino, il draghetto acconsentì ad accompagnare la ragazza dalla vecchia maga. Giunti al cospetto della vecchia dimora, la ragazza entrò senza esitazione ansiosa di parlare con la vecchia.

Isabella cadde in preda allo sconforto quando la maga le rivelò che il suo amato Arthur era stato vittima di un sortilegio ordito dalla famiglia di lei. Recuperata la determinazione che l’aveva spinta fino a quell’isola si dimostrò pronta a qualsiasi cosa, anche la più rischiosa, pur di salvare il suo amato.

La maga rincuorò la coraggiosa  ragazza poiché non tutto era perduto. C’era ancora una possibilità: bisognava raggirare il demone invocato dalla sua famiglia,  Sefirot, e sconfiggerlo sfruttando il suo lato debole, la sua smaniosa brama di potere.

La maga avrebbe dunque stretto un patto con il demone che avrebbe liberato il giovane ufficiale, offrendogli in cambio il potere del Trono di Attila di cui lei era custode. L’accordo si sarebbe dovuto sancire sul ponte che attraversa il canale d’accesso all’isola di Torcello, da allora poi denominato il Ponte del Diavolo. Isabella percepiva il pericolo di quella macchinazione, ma al tempo stesso il brivido freddo che le correva lungo la schiena la stimolava a confrontarsi con qualcosa più grande e potente di lei. Era fuggita da Venezia, non sconfitta, ora era pronta a fronteggiare le sue paure per la nuova vita che l’attendeva insieme ad Arthur.

Il piano era tanto chiaro quanto rischioso: Sefirot ben conosceva il potere che poteva scaturire dall’unione dell’anello del Doge di Venezia, che aveva ricevuto dagli aristocratici veneziani, con il Trono di Attila timorosamente custodito dalla vecchia maga di Torcello. Se solo avesse potuto sedersi su quel trono portando al dito l’anello di Enrico Dandolo, avrebbe istantaneamente consacrato un potere enorme su tutte le terre conosciute. Il suo smodato desiderio di potere doveva giocare a favore della vecchia maga che, di fatto, non avrebbe mai ceduto la custodia del Trono, ad ogni costo.

Così, la notte seguente Isabella alla sola luce di una candela che teneva in mano e preceduta dalla vecchia maga arrivò ai piedi del ponte. Lì, la maga evocò Sefirot che si materializzò gigantesco e nero davanti a lei. Senza dir nulla il demonio sfilò da sotto la sua lingua una delle chiavi d`oro e la porse alla maga. La vecchia lanciò la chiave nell`acqua, dove l`ombra del ponte si rifletteva sotto la luna.

A quel punto dall`altro lato del ponte, in un sentiero illuminato da lanterne ad olio, apparve per incanto Arthur, il giovane ufficiale austriaco. Seguendo le istruzione che le erano state impartite, Isabella attraversò il ponte passando tra il demone e la strega. Quando raggiunse il suo amato, soffiò sulla fiamma e spense la candela. D’incanto i due amanti si riunirono in un lungo abbraccio.

A quel punto Sefirot aveva mantenuto l’accordo e pretese dalla maga la consegna del Trono di Attila. Per poter rispettare il patto la maga informò il demone che dovevano attendere la notte più magica dell’anno. La data dell’appuntamento sarebbe stata la notte della Vigilia di Natale, perchè, in quella notte, le forze del bene e del male sarebbero state occupate in altre opere, pertanto l’accordo si sarebbe potuto materializzare, ma la maga già sapeva che qualcosa sarebbe dovuto andare storto... infatti, qualche giorno più tardi, la vecchia morì (si dice si sacrificò) in un incendio scatenatosi nella vicina isola di Murano dove abitualmente andava per la solidificazione del ossido di silicio, comunemente chiamato vetro, il materiale magico per ogni incantesimo. Le circostanze dell’accaduto rimasero incerte e non fu mai individuato un responsabile, ma in quel luogo venne eretto un edificio sacro, dove da lì in poi si sarebbe ricordato un animale maestoso e dalle gesta mitologiche: il drago.

La maga non poté, quindi, mai recarsi al ponte a pagar il suo debito. Da allora, si narra, la notte di ogni Vigilia di Natale un gatto nero attende inutilmente sul ponte la vecchia che venga a saldare il suo debito e consegnare il potere alle forze del male.

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